Vitage beauty di Daniel Buso
La maniera di Ewa Ceborska odora di fine secolo. La sua pennellata fastosa e crepuscolare, i soggetti fieri e malinconici, l’eleganza, quasi impolverata, delle scenografie delle sue opere. Qualsiasi elemento, chiamato a giocare un ruolo protagonistico in queste tele, comunica un’impressione nostalgica. Sembra che Ewa voglia rappresentare l’immagine del superamento di un’epoca; la qual cosa, come di consueto, coincide con il momento di massima espressione poetica dell’epoca stessa.
Al tramonto di un impero i suoi protagonisti appaiono investiti di una luce salvifica che ne indora le gesta e ne esalta le espressioni fisiognomiche altrimenti alterate dal tentativo di autocelebrazione kitsch. L’impero romano, nel momento della sua fine, esplose nel fenomeno romantico dello stile TARDO-ROMANO. La fine del dominio razionalistico illuminista, dapprincipio clamorosamente esploso nella superficiale retorica Rococò, si risolse nel fenomeno del Romanticismo: cocktail estetico di atteggiamenti provocatori e umori decadenti. La fine, più recente, dei Secondi Imperi post-Rivoluzione Francese significò la morte dello Stile Impero pomposo e vacuo nella sua teleologia illimitata. La rivolta romantica alla decadenza istituzionale provocò il crollo semantico della stagione razionalistica, quale si manifestava con alterne fortune dall’invenzione della prospettiva. Nacquero i movimenti anti-accademici, tracciando un terrene fertile di alterità da cui sarebbero sgorgate le irriverenti Avanguardie.
Tuttavia prima di ogni esplosione rovinosa, l’Impero (qui ovviamente inteso nella metafora dello stile pittorico) si affanna ad arrestare il suo disfacimento. Il risultato estetico che ne consegue non appare come un moto reazionario di retrocessione, né come un tentativo anacronistico di salvare una realtà irrefutabilmente mutata. Bensì, si tinge di nuovo, tenta eroicamente di anticipare l’inimmaginabile rivoluzione imminente, modificandosi. La modificazione non è giocoforza radicale, né fumosamente evidente. Si tratta piuttosto di una gentile concessione alle forme che, una volte investite dal moto rivoluzionario, determineranno la creazione di uno stile decisamente imparagonabile a tutto ciò che lo ha preceduto.
Questa lunga e sommaria divagazione funge, a mio avviso, da cornice metaforica impareggiabile per la comprensione dello stile di Ewa Ceborska. L’appartenenza cronologica di quest’artista al nuovo secolo (il ventunesimo, secolo dello schiamazzo e del banale in modo assai più subdolo del precedente) potrebbe trarre in inganno. Potremmo agevolmente tacciare i suoi esperimenti creativi affiggendo loro l’etichetta di tentativi anacronistici di placare una libera espressione della contemporaneità.
Il punto di partenza deve essere, invece, completamente capovolto. Ewa non imita la maniera di un tempo remoto, non cerca di restaurare una congerie sintattica il cui polso ha ormai smesso di emettere sonorità percepibili dallo stetoscopio della storia dell’arte. Ewa, infatti, riprende tematiche antiche ma per rappresentarne l’aspetto moribondo ed esteticamente furioso.
Woman in a hat, ad esempio, ricorda l’impresa di Pierre Bonnard che ad inizio Novecento scelse la moglie Marthe quale soggetto esclusivo per più di una decade di attività pittorica. Il soggetto è sempre fiero e distaccato: quasi la donna fosse ignara di essere ripresa. L’opera di Ewa non ripete lo stile divisionista del pittore francese, ma raggiunge la stessa impressione estatica nel cogliere un soggetto orgoglioso ed indifferente. La donna diventa un corpo scolpito dalle pacate vibrazioni cromatiche, acquisendo la medesima statuaria iconicità che appartiene all’oggetto decorativo che ne cinge il capo, il cappello di cui parla il titolo.La differenza tra le opere di Bonnard e questa tela di Ewa Ceborska risiede nelle motivazioni. Bonnard voleva celebrare il soggetto amato e lo fece nelle modalità che gli consentiva la sua epoca. Ewa sceglie una figura da ritrarre e si affanna a recuperare nelle espressioni, nei colori, nelle pose e nella disposizione sobria degli elementi scenografici della composizione, l’immagine metaforica del collasso di un Impero, l’impero del ritratto realistico. Questo, già morto al tempo della fotografia, dovette necessariamente evolversi spingendosi verso dimensioni in cui la fotografia non poteva arrivare. Talvolta raggiungendo risultati strabilianti, talaltra smarrendosi nella ricerca del nuovo a tutti i costi. Ewa pretende invece di arrestare questo vorace incedere verso l’originale ed il non-ancora-visto. Si ferma, respira l’anima lontana di un’epoca opaca e ne riscopre l’indole decadente. Il risultato è, al tempo stesso, un’interpretazione storica ed uno spunto di riflessione offerto ad una contemporaneità attualmente ancora giovane per poter anticipare l’aura magica ed eversiva del suo disfacimento.
L’opera Good Morning, contenuta nel catalogo, rappresenta un’altra modella colta nell’attimo più pregnante della quotidianità borghese, il risveglio. Colmo di desideri ed aspettative, il risveglio è il momento più difficile da vivere, poiché ci si sradica dalle romantiche pastoie del sogno notturno, ma, al tempo stesso, il risveglio è anche l’alba della novità. Esso è il primo passo per il compimento del futuro insondabile nella sua interezza da qualsiasi previsione anticipatrice. La donna dell’opera si risveglia, rivolge lo sguardo ad un punto fisso lontano dalla scena. Il corpo è morbidamente velato da tessuti trasparenti che ne celano solo marginalmente le nudità. Essa si offre nella sua sobria e matura bellezza alla contemplazione dello spettatore. L’immagine, nel complesso, sussurra ad un orecchio attento di guardare oltre, di sfidare l’apparente convenzionalità della routine che attraversa la quotidianità esistenziale. Le prospettive che riserveranno i momenti consequenziali all’attimo del risveglio sono imponderabili ed in questa loro aleatoria imprevedibilità risiede la poesia magica dell’esistenza stessa, cui Ewa tributa il suo personale omaggio pittorico.
Daniel Buso
Critico d’arte contemporanea e curatore